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IL CRIMINE FISCALE
L’altra faccia
di Silvano Borruso


“La contabilità? L’ho trasferita in Moldavia”, si legge a lettere di scatola a pag.51 del Corriere, Cronaca di Roma del 14 ottobre 2002. La pagina cataloga 222 violazioni penali accertate, 197 denunce, 575 verifiche, aumento di reati dal 23% fino al 112%, il tutto “coronato”, se è la parola giusta, da una foto tra il ridicolo e il penoso: due aitanti “Fiamme Gialle” allo schermo di un computer, affiancati da una giovane donna la cui faccia dà a vedere di non essere tanto capace di distinguere tra Fiamme Gialle a un computer e fiamme ossidriche a una cassaforte. Sotto, un riquadro sulle stesse Fiamme al Colosseo, questa volta “bruciando” cinque evasori fiscali: disoccupati fuori forma, a malapena indossanti l’uniforme di legionari romani presa in affitto a Cinecittà che scroccano il saltuario euro ai turisti per farvisi fotografare insieme.
        Quando ho smesso di ridere ho preso a riflettere. A parte il costo dell’operazione semi-militare al Colosseo, l’odio viscerale verso l’IVA, VAT o GST come la si chiama nei paesi anglosassoni che la praticano, non è fenomeno esclusivamente italiano: è universale. Nell’aprile del 1995 lo Scacchiere britannico scoprì un deficit, nelle entrate VAT, di ben 7 miliardi di sterline, la cui destinazione era e rimane un mistero. La Kenya Revenue Authority impiega un vero esercito di esattori con poteri polizieschi assillando chi si arrangia in mille modi per evitare, evadere o in qualunque modo trastornare i tentativi di vedersi estorti i frutti del proprio lavoro per vederli buttati a pescecani nuotanti sulla scia della nave economica. Chi conosce un solo paese dove quest’imposta (nel senso più etimologico del termine) venga tollerata senza provarne una rabbia interiore, può smettere di leggere.
        Questa situazione grottesca è lascito di tre fannulloni, nessuno dei quali si occupò in un lavoro onesto: Adam Smith (1723-90) Karl Marx (1818-83) e John Maynard Keynes (1883-1946). Chi vuole sapere il perchè dell’epiteto legga le loro biografie: qui esamineremo le loro idee da bancarotta.
        Nessuno del trio era andato più in là, nella sua analisi economica, del capitalista A e del lavoratore B, differendo solo su come costoro si dividessero il prodotto del lavoro di B. Da cui la famosa “questione sociale” che ci assilla dal secolo XIX e la cui soluzione non è più in vista oggi di quanto lo fosse al tempo di Rerum Novarum di Leone XIII.
        E’ evidente che qualcosa non va, e che non si tratta di qualcosa di poca monta. A e B non si dividono affatto il prodotto di B; si dividono quello che lasciano loro il terratenente vivente di rendita C, l’usuraio D, l’esattore di imposte E e tutto un banco di pescecani dalla F alla Z, ciascuno reclamando il suo “pizzo” della fetta di torta che prima o poi (o mai) raggiungerà A e B.
        Non rivendico originalità in ciò che sto affermando: sto solo ripetendo quello che aveva fatto osservare Henry George (1839-97) più di 100 anni fa e che aveva ribadito Silvio Gesell (1862-1930) agli inizi del secolo XX, usurpato a questi due geni dell’economia dai sostenitori dei fannulloni summenzionati, assoldati, manco a dirlo, dagli agenti di C-Z.
        Cosa aveva proposto George? Semplicemente di distogliere l’attenzione di E dai guadagni legittimi di A e B per rivolgerla ai guadagni illegittimi di C. Gesell aveva proposto la stessa cosa verso i guadagni usurai di D. Le due proposte meritano una breve analisi, negata loro dalla combutta che da più di un secolo riesce a farle rimanere in dimenticatoio.
        George proponeva di dare forma moderna al concetto di rendita come servizio pubblico. Si era accorto dall’osservazione diretta (come può farlo chiunque) che l’incremento di rendita è dovuto non agli sforzi di chi lavora sulla proprietà, ma a quelli di chi ci lavora attorno. Per cui l’incremento di rendita è da versare all’erario, non nelle tasche di C. E’ il concetto che vigeva nell’alto medioevo: i feudatari secolari si accollavano le spese di amministrazione e di difesa, e quelli ecclesiastici dei servizi sociali. Dal basso medioevo in poi, i feudatari non solo si liberarono dei loro doveri, ma finirono con confiscare le terre ecclesiastiche che avrebbero ancora potuto fornire servizi sociali. Da allora l’imponibile fiscale si è sempre più identificato con il valore aggiunto dallo sforzo di chi lavora, invece di identificarsi, come vorrebbe giustizia, con il valore sottratto dalle risorse naturali cominciando dalla terra.
        La teoria è semplice e attraente. Non così la pratica, specialmente per i membri della classe C, che guarda caso reggono saldamente le redini del potere. Per chi non lo sappia, l’unico motivo per l’esistenza continuata della Camera dei Lords, nel parlamento britannico, è di opporsi con tutti i mezzi a che la camera dei Comuni approvi leggi che minimamente intacchino i privilegi ingiusti accumulati dal tempo di Enrico VIII. Ecco perchè neanche il più fanatico primo ministro laburista sia mai riuscito a sbarazzarsi dei Lords nonostante le millantate promesse in sede di campagna elettorale.
        Si pensi agli effetti benefici di una IVS (imposta valore sottratto) colpente l’incremento di rendita del suolo ma non di quello che vi è costruito su:


Però, fino a quando le redini del potere sono dove sono, ciò rimane utopico. Vediamo invece la proposta di Gesell, tanto radicale quanto quella di George, ma il cui bersaglio è un altro: la moneta.
        Il difetto strutturale scoperto da Gesell nella moneta non ha niente a che vedere con l’avarizia; si tratta di una contraddizione inerente alla moneta così come la conosciamo dai tempi per lo meno di Creso di Lidia 26 secoli fa.
        Se nessun economista ha mai potuto dare una definizione univoca della moneta, è perchè ciò è tanto impossibile quanto definire univocamente uno scapolo coniugato, un cerchio quadrato o una vergine di facili costumi. La moneta ha sempre avuto, infatti, due ruoli contradittori: portavalori (nel tempo e nello spazio) e mezzo di scambio. E’ evidente che se assolve una funzione non assolverà l’altra e viceversa.
        La cosa non finisce qui. Una certa quantità di moneta potrà essere equivalente a una certa quantità di beni e viceversa, ma le rispettive qualità non si equivalgono affatto. Ciò acutamente lo vide Gesell e ottusamente mai lo videro Smith e Marx (Keynes sì, però i potenti di Bretton Woods gli impedirono di mettere in pratica l’idea di Gesell).
        A differenza di derrate e merci deperibili di tutti i tipi, la moneta non è soggetta ad alcun deterioro naturale. Chi ce l’ha, può aspettare. Chi ne ha bisogno per vivere, no. Per cui il possessore di moneta ha una scelta che il possessore di roba deperibile non ha: può spenderla o può “risparmiarla”. Non importa che la “risparmi” sotto un materasso, in banca, in borsa, o come tesoro sepolto da scoprire con un cercametalli secoli dopo; quello che importa è che la moneta come portavalori è la causa primaria:


Pierre Joseph Proudhon (1809-65) aveva raggiunto la stessa conclusione, ma si era illuso di porvi rimedio con il promuovere i beni più o meno deperibili in periodo di crisi per mezzo della loro circolazione rapida.
In un lampo di genio, Gesell intuì che la soluzione è esattamente l’opposto di quella di Proudhon: è la moneta che bisogna degradare al livello dei beni deperibili rendendo deperibile anch’essa. Come? Con una tassa d’immagazzinaggio che forzi i suoi possessori a farla circolare rapidamente. Una unità monetaria scambiata tre volte al giorno (caso alquanto estremo) può muovere beni e servizi per mille volte il suo valore nominale in un anno. Una emissione relativamente bassa accoppiata ad un’alta velocità di circolazione assorbirebbe tutta l’offerta del mercato.
        Gesell aveva proposto un tasso di deprezzamento di 1/1000 del valore nominale per settimana, cioè del 5,2% per anno, da pagarsi affiggendo settimanalmente un bollo da comprare negli uffici pubblici e i cui proventi andrebbero all’erario. Scaduto il mese, la moneta perderebbe corso legale a meno di non bollarla.
        Bisogna riconoscere che si tratta di un sistema ingombrante per dire il meno, ma bisogna anche tener conto che 100 anni fa non esistevano le macchinette obliteratrici, che oggi lo renderebbero fattibilissimo. Una obliterazione mensile dello 0,5% del valore nominale, cioè del 6% annuale, darebbe finalmente a ciascuno il suo e non l’altrui. Sarebbe la fine dell’usura e con essa dell’economia di guerra. Mentre le previsioni degli economisti non hanno in generale un successo superiore a quelle delle streghe, giudichino i lettori la predizione di Gesell del 1918 in una lettera al giornale Zeitung am Mittag. La Grande Guerra era appena finita.

        Nonostante la sacra promessa da parte di tutti i popoli di bandire la guerra una volta per tutte, nonostante il grido di milioni “guerra mai più”, nonostante tutte le speranze per un futuro migliore, ho questo da dire: se il sistema monetario attuale, basato sull’interesse composto, rimane in operazione, oso prevedere oggi che non ci vorranno 25 anni prima che scoppi un’altra, e peggiore, guerra. La vedo venire. Lo sviluppo tecnologico odierno farà sí che l’industria raggiunga quote da record. Il capitale aumenterà rapidamente nonostante le enormi perdite belliche, e l’abbondanza di offerta farà abbassare il tasso di interesse. Si comincerà ad accaparrare moneta. L’attività economica diminuirà e un numero crescente di disoccupati vagabonderà per le strade. Il malcontento delle masse esploderà in idee selvagge e rivoluzionarie, e la pianta velenosa del “Supernazionalismo” prolifererà. I paesi non si capiranno a vicenda, e alla fine non potrà che esservi guerra.

        Viene da domandarsi cosa abbia potuto scongiurare una guerra (mondiale, s’intende; di locali c’è solo l’imbarazzo della scelta) nella seconda metà del secolo XX. Fu la proposta di Keynes a Bretton Woods nel 1944. Costui aveva letto Gesell, al punto da pronosticare, nella sua General Theory (London 1936 p. 355) che

Il futuro apprenderà di più dallo spirito di Gesell che da quello di Marx.

E aveva di conseguenza proposto di adottare una moneta a corso mondiale con le caratteristiche summenzionate, che nominò Bancor. Che gli bocciassero la proposta lí per lí non deve sorprendere nessuno, ma il ripiego fu il keynesianismo, consistente, come si insegna, nel sostituire moneta accaparrata fuori dal mercato con moneta emessa nel mercato a seguito di un bilancio di Stato deficitario.
        Non c’è stata guerra, ma a prezzo di una svalutazione generale di tutte le monete. Ai primi del secolo XXI si sta inesorabilmente tornando alle condizioni di depressione economica degli anni 30, per cui una guerra salverebbe oggi l’economia di Bush come salvò quella di Roosevelt 60 anni fa.
Ora viene la sorpresa. Per attuare la proposta di Henry George sarebbe necessaria una volontà politica non solo inesistente, ma anche impossibile da suscitare. Per attuare quella di Gesell la volontà politica è ugualmente inesistente, ma è provvidenzialmente innecessaria. Di fatto, di moneta geselliana non solo si parla, ma la si emette ormai in un numero crescente di comunità in tutto il mondo.
        A partire dal 1983, circa 3000 comunità in tutti i continenti stanno emettendo ciascuna la sua moneta, non sostituendo quella ufficiale, ma parallelamente a essa. La moneta sociale soddisfa le necessità intracomunitarie, quella ufficiale serve per transazioni intercomunitarie e per pagare le tasse. In pochi casi le autorità accettano la moneta sociale anche per queste ultime. Ma la pressione sulla moneta ufficiale viene alleggerita notevolmente. La crisi argentina ha fatto sì che quasi l’80% del commercio interno avvenga oggi per mezzo di moneta sociale.
        Si aggiunga che una base di dati è in grado di far scambiare servizi personali a tutti i livelli, anche mondiale, come già avviene. Oggi è quindi possibile definire la moneta univocamente come informazione. Da Creso a Bretton Woods questa informazione veniva registrata su pezzi di metallo più o meno prezioso e/o su pezzi di carta più o meno decorati. Oggi la si può registrare su una cartella in una base di dati sul disco duro di un computer.
        Il fenomeno è agli inizi, ma è possibile prevederne delle conseguenze.
Una moneta sociale con potere di acquisto stabile finirà con l’imporre disciplina alla moneta ufficiale, ancora sotto l’illusione di Creso che le impose un superfluo “valore intrinseco” coniandola su pezzi di una lega di argento e oro;
        E una moneta non più accaparrabile sarà libera e portatrice di libertà. Lo può verificare chiunque confrontandone le conseguenze contro quelle della moneta convenzionale.
        Lo Stato non sembra darsene per inteso, ma la proliferazione di tali comunità lo forzerà a rivedere le politiche fiscali. E’ questione di tempo, e forse non tanto, perché trionfi la giustizia e non il positivismo giuridico e legale, e perchè si dica addio al parassitismo economico una volta per tutte. Come diceva Victor Hugo (1802-85) “nulla è più potente di un’idea il cui tempo è arrivato”.


di Silvano Borruso