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I GLOBALIZZATORI
di Paolo Barnard (dpbarnard@tin.it)
www.report.rai.it

Trasmessa venerdì 9 giugno 2000 - RAI 3 - ore 23.00

WTO:
www.wto.org

Commissione Europea DG1:
europa.eu.int/comm/trade/index.htm

FAO:
www.fao.org

Trans Atlantic Business Dialogue:
www.tabd.com

International Chamber of Commerce:
www.iccwbo.org

Corporate Europe Observatory:
www.xs4all.nl

Friends of the Earth:
www.foe.org

Public Citizen:
www.tradewatch.org


Quando si pronuncia la parola Globalizzazione gli animi si scaldano subito. Oggi infatti si assiste a un dibattito sempre più acceso fra i contestatori dei mercati globalizzati da una parte e dall'altra i sostenitori dell'idea che il benessere economico mondiale richieda liberi scambi senza troppe regole politiche o sociali. L'apice di questa diatriba la si è vista nel novembre del '99 con la grande contestazione di Seattle, la città americana che ospitava il massimo vertice di Globalizzazione, sulla quale discesero "sciami" di contestatori da ogni parte del mondo.

Ma la Globalizzazione cos'è esattamente? E quali sono le sue ricadute sulla società civile? Questa inchiesta mostra solo i lati controversi dei processi globalizzanti, e lo fa intenzionalmente, poiché le ricadute positive ci vengono illustrate ogni giorno, su ogni media, nella pubblicità, e persino dai nostri politici. Ma i pericoli e le zone d'ombra ci sono, e sono proprio quelle su cui si tenta di stendere un velo interessato di silenzio. Iniziamo proprio da alcuni degli esempi più noti.

L'Europa ha decretato che la carne americana trattata con ormoni artificiali, al contrario della nostra, è pericolosa per la nostra salute e ha deciso di non importarla. Una precauzione che però ci costa molto cara: 340 miliardi di sanzioni americane contro il Vecchio Continente. Una ritorsione decisa all'Organizzazione Mondiale del Commercio nel nome delle regole della Globalizzazione.

In Toscana e in Piemonte, nel mezzo delle terre più belle e fertili d'Italia la Globalizzazione ha colpito duro. Il tartufo è uno dei nostri prodotti più pregiati e lo esportavamo in grandi quantità negli Stati Uniti d'America; ciò creava reddito per le aziende e i lavoratori italiani. Ma dall'anno scorso gli Stati Uniti hanno deciso di tassare il tartufo del 100%, sbarrandogli la strada. Chi l'ha deciso? L'Organizzazione Mondiale del Commercio nel nome della globalizzazione.

L'Unione Europea, per proteggere la salute dei nostri bambini, ha detto di no all'importazione di giocattoli che contengono un ammorbidente tossico. Ma anche questa precauzione è oggi nel mirino dell'Organizzazione Mondiale del Commercio e dei suoi accordi di globalizzazione.

L'Organizzazione Mondiale del Commercio, più nota come WTO, è dunque il grande motore della globalizzazione. Ma cosa c'è che non va nel suo lavoro? L'ho chiesto alla professoressa Susan George, direttrice del Transnational Institute di Amsterdam e considerata oggi il critico più autorevole del sistema globalizzato: "La Globalizzazione dei mercati" inizia la George, "nasce, nella sua forma più spinta, sei anni fa quando 135 nazioni sancirono la nascita del WTO, con i suoi potentissimi accordi. Il problema è che praticamente tutto ciò che compone la nostra esistenza viene trasformato in merce di scambio: dall'istruzione, alla sanità, dalla cultura ai servizi bancari, dalle pensioni ai diritti fondamentali dei lavoratori; e poi la gestione degli asili, l'alimentazione umana, quella animale... In sintesi, siamo come in vendita, sugli scaffali del supermercato globale."

Il WTO ha sede a Ginevra, e rappresenta oggi 136 governi, incluso quello italiano. In teoria al timone del WTO ci dovrebbero essere i ministri del commercio dei vari paesi, ma nella realtà l'Italia e tutti gli stati d'Europa sono rappresentati al WTO dalla Commissione Europea di Romano Prodi, che siede per tutti noi al tavolo delle trattative. Da questo tavolo sono usciti gli accordi sul commercio planetario; ed è precisamente contro questi accordi che è esplosa la protesta a Seattle: l'accusa è che si tratta di regole dotate di poteri enormi, spesso superiori a qualunque legge degli stati nazionali.

Nella sede ginevrina di questa controversa organizzazione chiedo a Keith Rockwell, uno dei direttori, come ha fatto il WTO a diventare così impopolare: "E' straordinario, vero?" risponde Rockwell con un cenno di assenso, "ma si tratta di un destino che abbiamo in comune con molte altre organizzazioni internazionali: la Comissione Europea è impopolare, il Fondo Monetario lo è anche più di noi, e così la Banca Mondiale. Vede, la gente si sente lontana da questi grandi palazzi di Ginevra o di Brussell, le persone comuni non capiscono né chi siamo né quali saranno gli effetti sulla loro vita degli accordi che qui nascono. Ma vi posso garantire che ogni singolo accordo è passato al vaglio dei vostri governi."

E allora vediamo questi accordi di globalizzazione: hanno nomi difficili per noi, Accordo Sanitario e Fitosanitario, Barriere Tecniche al Commercio, Diritti di Proprietà Intellettuale e via discorrendo. In tutto formano 27.000 pagine di regole e codici, che hanno un potere pari al loro incredibile volume. Per capire meglio facciamo un esempio.

Alla fine degli anni '80 l'Unione Europea decise di vietare l'uso degli ormoni nell'allevamento dei manzi da carne e soprattutto proibì le importazioni di carne agli ormoni dagli Stati Uniti d'America. I nostri scienziati la ritenevano pericolosa per la salute umana. Perché? La risposta la trovo alla periferia di Milano, dove incontro Luca Giove, un professionista di 31 anni che quando era ragazzino ebbe degli strani problemi di salute.

"Luca Giove cosa ti successe?", gli chiedo appena dopo il nostro incontro davanti a quella che fu una volta fu la sua scuola media. Giove ammicca: "A circa 12 anni mi si era gonfiata l'aureola del capezzolo mammario sinistro, e questo era dovuto probabilmente al fatto che avevo mangiato della carne estrogenata, nelle mense di questa scuola."

Luca Giove, suo malgrado, ha un posto nella storia delle guerre commerciali, poiché la battaglia dell'Europa contro la carne agli ormoni americana inizia proprio dal suo caso, accaduto nel 1981. Il gonfiore del suo capezzolo richiese un intervento chirurgico, e i sintomi di crescita anormali di altri piccoli alunni scatenarono l'allarme negli scienziati europei, fra cui l'italiano Giuseppe Chiumello. I sospetti caddero subito sulla carne agli ormoni che allora circolava liberamente.

"Luca, hai avuto altri problemi di salute nella tua vita adulta che tu possa ricondurre a questa vicenda?"

"Ma, diciamo che ho dei problemi a livello spermatico, il numero è sotto la media e anche la motilità. Non so a cosa può essere imputato ma non so cosa si possa escludere a priori. Io ho anche avuto problemi di varicocele e problemi venosi, e non so quanto si possa ricondurre alla carne estrogenata." Giove mi lascia con una raccomandazione: "Guardi, io ne ho passate... spero solo che la mia vicenda possa contribuire a qualcosa di positivo."

Quindi, dalla fine degli anni '80 l'Unione Europea, per tutelare la salute dei suoi cittadini, decise di vietare le importazioni delle carni agli ormoni. Ma negli Stati Uniti questa decisione non fu affatto gradita. Nel 1996 il governo di Washington, brandendo uno dei potenti accordi di globalizzazione, trascinò l'Europa davanti ai giudici del WTO. Tuttavia, nel farlo, l'amministrazione Clinton aveva ceduto alle pressioni della più potente lobby di allevatori di bestiame statunitense: la National Cattleman Association, come dimostra un documento che ho ottenuto in via riservata, dove si legge:

"Al signor Bob Drake della National Cattleman Association: come lei ci ha espressamente richiesto, abbiamo iniziato una procedura presso il tribunale del WTO contro il divieto europeo di importare la nostra carne." Il documento di cui parlo non è altro che una lettera autografa dell'allora ministro americano per il commercio Michael Kantor.

La procedura si concluderà con la condanna dell'Europa, una condanna inappellabile ottenuta grazie proprio a uno di quei potentissimi accordi del WTO di cui parlavo prima. L'Europa tuttavia non si è piegata e ha continuato a tenere la carne agli ormoni fuori dai suoi mercati. Il WTO è allora tornato alla carica e nel luglio del '99 i suoi giudici ci hanno condannati ancora, condannati a pagare un prezzo altissimo: 340 miliardi all'anno sotto forma di sanzioni commerciali americane.

Le sanzioni americane autorizzate dal WTO hanno colpito le esportazioni europee più pregiate, e fra le vittime italiane si contano i pomodori pelati, i succhi di frutta, il pane e soprattutto il tartufo. Nella splendida valle chianina, in Toscana, incontro il titolare di una azienda specializzata in tartufi, che aveva trovato un grande sbocco di mercato in America. Oggi il sogno è svanito e la sua azienda ha persino vacillato per un attimo. "Mi dica sinceramente: prima di questa vicenda lei aveva mai sentito parlare di globalizzazione o di WTO?" chiedo provocatoriamente. Questo signore di mezza età scuote il capo: "Ammetto la mia ignoranza, io ne prendo nota soltanto adesso, e francamente non so chi siano questi signori."

Keith Rockwell, al WTO, ammette che è quasi impossibile spiegare a un produttore italiano di tartufi o di pomodori in scatola che è giusto che oggi il loro mercato estero, costruito in anni di fatiche, sia polverizzato da una sentenza di globalizzazione. Rockwell aggiunge: "E' difficile, ed è un problema che non avete solo voi in Italia. Io posso offrire a costoro tutta la mia comprensione, ma le regole sono queste."

Abbiamo visto che il WTO è in grado di esercitare un enorme potere. E allora c'è una domanda che sorge spontanea: i nostri politici, quando nel 1994 aderirono a tutti gli accordi del WTO, erano consapevoli di quello che stavano accettando? L'On. Domenico Gallo era senatore proprio in quel periodo e grande esperto della questione, e a lui giro la domanda. "Certamente non c'è stato un dibattito politico pubblico né riservato," inizia Gallo, "le questioni non sono state oggetto di confronto politico in Italia. Scarsa fu anche la sensibilità parlamentare. Tutto è stato vissuto non come un evento di grande importanza globale, ma come un passaggio obbligato, come una festa della modernità, dove non c'era niente da dire perché andava tutto per il meglio."

Fra i politici italiani, quando si parla di WTO, svetta il nome di Piero Fassino, che fino a poche settimane fa era ministro per il commercio con l'estero, era cioé il nostro maggior esperto istituzionale di globalizzazione. Gli ho sottoposto alcune domande sui punti dolenti che abbiamo appena visto, e su altri che vedremo in questa inchiesta, ma le cose non sono andate nel migliore dei modi. "No!, no! Il suo compito non è di indagare sui punti dolenti.....In questa intervista lei enfatizza i rischi, lei fa il protezionista, io cerco di esaltare le opportunità della globalizzazione!" Ribatto: "Vediamo però come siamo arrivati a dover accettare livelli doppi di diossina nelle nostre carni e sanzioni miliardarie per il nostro rifiuto di importare la carne ormonata americana." Fassino: "Ma la carne agli ormoni non entra in Europa, e poi non c'entra il WTO!..."

Lo correggo: "Ministro è il WTO che ci ha condannati a pagare miliardi solo perché stiamo proteggendo la salute dei cittadini europei."

"Senta facciamo così, io non voglio concederle questa intervista... è del tutto folle... l'approccio è folle!" tronca netto il ministro, "mi dia la cassetta, me la consegni".

Di consegnare la casetta non se ne parla. Lascio Fassino e proseguo nell'indagine. Come abbiamo detto, noi cittadini d'Europa abbiamo delegato la Commissione Europea a trattare per noi al tavolo della globalizzazione. Ma Susan George su questo ha qualcosa da dire: "La Commissione Europea è un organo politico che dovrebbe fare gli interessi di tutti i cittadini quando siede al tavolo del WTO. E invece, da anni la Commissione è al servizio delle multinazionali e delle lobby che le rappresentano. Questo è grave, ed è anche il motivo per cui gli accordi che vengono firmati al WTO sono così di parte. Io parlo di una realtà dimostrata: a lei il compito di indagare."

E ho indagato girando l'Europa con una domanda fissa nella testa: ci possiamo fidare dei globalizzatori, di chi, come la Commissione Europea, decide per tutti noi al tavolo della globalizzazione?

Romano Prodi, che della Commissione è oggi il Presidente, mi risponde con parole semplici: "La sua è una domanda imbarazzante. Io penso che l'unico modo è fidarsi di noi."

E invece in questa indagine ho trovato documenti che sembrerebbero minare la nostra fiducia, e mi sono imbattutto in poteri forti di cui, almeno io, non sospettavo neppure l'esistenza.

Siamo infatti abituati a immaginare che il potere abiti in stupefacenti palazzi e grattacieli vertiginosi, ma non sempre. In un anomino palazzetto di Brussell risiede forse la più potente lobby industriale del mondo: il Trans Atlantic Business Dialogue (TABD). Report ha chiesto di poter visitare la loro sede, ma come spesso ci accade, non siamo i benvenuti. In questa lobby si raggruppano aziende di calibro mondiale, con fatturati complessivi pari al prodotto interno lordo di intere nazioni. Ed è proprio il TABD che arriva al punto di presentare periodicamente sia alla Commissione Europea che al governo americano una lista di sue priorità per la globalizzazione, di fronte alle quali la Commissione sembra proprio spalancare le porte. Ho ottenuto attraverso contatti a Brussell una copia delle liste di priorità del TABD, che hanno un tono perentorio. Vi si trovano elencate le richieste delle multinazionali, chi deve darsi da fare fra gli organi politici, e ci sono per iscritto tutte le migliori intenzioni della Commissione Europea nel soddisfarle. Prima di Seattle la Commissione ha addirittura incoraggiato questa grande lobby a sottoporle ulteriori richieste, definendole "priorità assolute". Ma è giusto tutto ciò? E giro la domanda al presidente Prodi. "Presidente," inizio, mentre lui sfoglia la documentazione che gli ho appena passato, "qui la vostra risposta sembra decisamente appiattita sugli interessi di questo grande gruppo industriale."

Prodi scuote il capo: "Fare gli interessi dei gruppi industriali non significa non fare gli interessi della povera gente o dei gruppi ambientalisti. Se lei mi accusa di proteggere gli nteressi industriali io dico sì, il problema è di vedere come si armonizzano queste cose."

Nessuno contesta che la Commissione Europea debba anche pensare agli interessi del mondo degli affari, ma gli uomini di Romano Prodi sono dei politici, col mandato di tutelare gli interessi di tutti i cittadini. I documenti riservati che seguono sembrano invece contraddire in tema di globalizzazione le rassicurazioni del Presidente Prodi. Ne riporto qui alcuni passaggi preoccupanti, ricordando che si tratta di documenti ufficiali che circolavano da tempo fra i burocrati di Brussell:


1997: DISCORSO ALLE INDUSTRIE CHIMICHE DEL VICE PRESIDENTE DELLA COMMISSIONE EUROPEA

"Siate tempisti, e cioé diteci per tempo se pensate che qualcosa debba essere fatto, o, ancora meglio, se pensate che qualcosa debba essere stroncato sul nascere."


1997: COMMISSARIO EUROPEO AL COMMERCIO

"Il Trans Atlantic Business Dialogue è diventato un meccanismo efficace per ancorare le politiche dei governi sugli interessi dei gruppi di affari."


COMMISSIONE EUROPEA, DIRETTORATO GENERALE PER IL COMMERCIO

"Vogliamo trovare un accordo con gli Stati Uniti per stabilire un sistema di pre-allarme contro le proposte politiche che potranno avere un impatto negativo sulle industrie di servizi."

Ancorare i governi sugli interessi dei gruppi d'affari? Sistemi di pre allarme contro le proposte politiche? Ma per conto di chi lavorate, presidente Prodi?

"Guardiamo alle cose più serie" ribatte il Presidente di fronte a quelle carte, "non guariamo a queste frasi che non dicono assolutamente nulla. Queste sono dichiarazioni che io condivido."

Eppure, tutto sarebbe più equlibrato se la Comissione Europea, che ci sta globalizzando, ogni tanto chiedesse anche a noi cittadini cosa ne pensiamo. Ma lo fa? Una cosa è certa, i grandi gruppi di servizi, come le finanziarie, le grandi assicurazioni o le banche vengono consultati in tempo reale da un sistema elettronico che si chiama S.I.S., messo in opera dalla Commissione Europea, come prova un altro documento firmato Direttorato Generale1, che recita: "La Commissione Europea ha creato un sistema di consultazione con le industrie dei servizi che permette ai negoziatori della Commissione di consultare rapidamente le aziende e anche i singoli azionisti."

Chiedo spiegazioni al responsabile di questa iniziativa, Dietrich Barth, nel suo ufficio al quinto piano della Commissione. Barth candidamente conferma: "Quest'anno sono previsti i negoziati del WTO per la liberalizzazione dei servizi. La Commissione ha un assoluto bisogno di conoscere gli interessi dei grandi gruppi d'affari di questo settore." Ma perché Barth, che lavora per i politici, non menziona anche gli interessi dei semplici cittadini? Gli chiedo provocatoriamente: "Sono sicuro che vorrete conoscere anche gli interessi delle persone comuni, o dei gruppi che li rappresentano. Dov'è il sistema elettronico per consultare anche loro?" "L'S.I.S è accessibile anche ai sindacati e ai gruppi di attivisti, non solo all'industria." Risponde sicuro.

Non mi rimaneva che chiedere conferma di questo sia ai sindacati che agli attivisti. Inizio da Cecilia Brighi, una esperta di globalizzazione dell'Ufficio Internazionale della Cisl, che ribatte seccamente: "Purtoppo i contatti voluti dalla Commissione con i sindacati sui temi della globalizzazione non sono così spinti come quelli che avvengono con le muntinazionali; anzi, praticamente non esistono."

" Signora Brighi, lei ha mai sentito parlare del S.I.S.?", chiedo a bruciapelo. "No, mai." "Vi hanno informati dell'esistenza di questo sistema?", insisto. "Credo di poter affermare con certezza che le organizzazioni sindacali italiane non siano mai state informate di questo sistema di consultazione." L'Italia è lontana da Brussell, e allora torno in Belgio per chiedere a Friends of the Earth, uno dei più grandi gruppi ambientalisti del mondo, se almeno loro, che hanno la sede a due passi dalla Commissione Europea, hanno mai sentito pronunciare il fatidico nome S.I.S. Mi risponde Alexandra Wandell, e lo fa con grande stupore: "Sfortunatamente è la prima volta che sento parlare di questo sistema di consultazione, me lo sta dicendo lei, a noi non l'hanno mai comunicato. La Commissione Europea dovrebbe smettere di declamare di iniziative che in realtà non ha nessuna intenzione di portare avanti."

La Commissone Europea ha fatto uno sforzo ciclopico per consultare i business d'Europa prima di Seattle. Ha fatto un sondaggio sui desideri dell'Investment Network, un'altra lobby di giganti industriali che include la Fiat e la Pirelli, e un secondo sondaggio su 10.000 aziende. Tutto documentato da me, nero su bianco. Fra l'altro ho cercato a Brussell anche la sede di questo Investment Network, ma non l'ho trovata. Per forza, perché questo gruppo di multinazionali si riunisce proprio nella sede della Commissione Europea. E anche di tutto ciò ho discusso con Romano Prodi.

"Vede Presidente, la cosa che preoccupa è che tutto questo sembra non esistere poi con le ONG, coi consumatori, coi sindacati" e attendo la sua reazione.

"Coi sindacati io sono in colloquio quotidiano," mi rassicura Prodi, "ma se esiste questo Investment Network io francamente non glielo so dire, non lo sapevo, non sapevo neanche che esistessero sondaggi per le imprese, me lo fa vedere lei adesso. Ma se stesse qui dentro lei vedrebbe quanto dialogo c'è con le organizzazioni non governative e con i sindacati."

Cecilia Brighi, a distanza, replica con altrettanta sicurezza: "Non c'è ancora nulla, non lo hanno assolutamente ancora fatto, non c'è nulla, noi non sappiamo quali sono gli impatti degli accordi già sottoscritti, per esempio in tema di agricultura o di occupazione, come per esempio non c'è consultazione sui temi sociali nel mondo. Tutto questo va costruito in tempi rapidissimi."

Che ci sia dialogo è dunque tutto da verificare; ma una cosa verificata invece c'è: anche quando la Commissione comunica con le organizzazioni dei cittadini non sempre c'è da fidarsi. Ho ottenuto due documenti sulla globalizzazione scritti dalla Commissione Europea che dovevano essere identici, intitolati "Regole internazionali per gli investimenti in seno al WTO", stesso protocollo e stessa data: solo che uno era destinato ai burocrati, l'altro ai cittadini. A una lettura più attenta sono emerse differenze radicali nei testi: la versione per la gente comune era tutta un'altra cosa.

Ma a proposito di fiducia, ritorniamo alla carne agli ormoni americana. Sulla base di quali prove il WTO condannò l'Europa? A rispondere è di nuovo Keith Rockwell: "Quello che le posso dire è che il WTO nel caso di dispute sulla sicurezza degli alimenti decide in base al parere degli scienziati della FAO. A loro fu chiesto di emettere il verdetto sulla carne agli ormoni."

E infatti un gruppo di scienziati cosiddetti super partes si riunirono proprio alla FAO a Roma, e più precisamente nella commissione chiamata Codex. Dalla FAO partì il verdetto: secondo loro l'Europa aveva torto. Ma gli scienziati della Fao erano davvero super partes, erano davvero imparziali?

"Certamente" sentenzia con fermezza Alan Randell, uno dei massimi responsabili dei gruppi scientifici della FAO, cui ho rivolto quelle domande. Randell spiega: "Siamo una organizzazione intergovernativa e il nostro compito è di fissare gli standard internazionali per la sicurezza degli alimenti. Abbiamo deciso che gli ormoni nella carne americana non pongono problemi alla salute, e potete fidarvi."

Pochi giorni dopo aver registrato quelle affermazioni, mi sposto a Londra per un incontro cruciale. L'uomo che mi aspetta alla stazione Victoria vuole rimanere anonimo, perché è un chimico farmaceutico che ha lavorato per 35 anni con la grande industria e che oggi ha deciso di raccontare tutto quello che sa sulla cosiddetta indipendenza degli scienziati della FAO. Trovarlo è stata veramente un'impresa, attraverso una serie infinita di contatti. Gli chiedo prima di tutto: perché vuole parlare? "Il mondo sta cambiando, le multinazionali farmaceutiche e agroalimentari hanno assorbito ormai tutto....non so...forse perché mi sto per ritirare dalla scena...ma guardi, io ho visto troppe cose, e c' è un limite per tutti, o forse solo per me." La nostra conversazione continua, e lo invito a venire al dunque, e cioé alle prove di quanto mi vorrebbe rivelare. Questo scienziato dall'aria aristocratica mi invita a sedermi a un tavolo del bar della Royal Albert Hall, e poi inizia: "La documentazione che le mostro era in gran parte segreta, e infatti molti fogli portano il marchio declassificato. Ora, per dimostrale quanto siano inaffidabili gli organi scientifici della FAO è necessario che le racconti una vicenda parallela a quella che a lei interessa."

"Guardi questi documenti. E' il novembre del '97, e la FAO si sta preparando a giudicare la sicurezza degli ormoni nel latte, che sono prodotti dalla multinazionale Monsanto. Qui si legge che uno scienziato della FAO, il dott. Nick Weber, aveva passato al dott. Kowalczyk della Monsanto i documenti riservati che solo gli scienziati della FAO avrebbero dovuto leggere prima di emettere il verdetto. Fra questi documenti c'erano persino gli studi della Commissione Europea, che era contraria agli ormoni artificiali. Capisce? La Monsanto poté studiarsi con molto anticipo cosa avrebbero sostenuto i suoi critici durante i dibattimenti. Ma è normale ciò?"

Non rispondo e lo invito con un cenno del capo a continuare. Lui prosegue: "La FAO esaminò gli ormoni nel latte e in un primo tempo espresse parere positivo. Un trionfo per la Monsanto, ma c'era una nota che stonava. Michael Hansen, un consulente della FAO, non era d'accordo e stava per lanciare un allarme. Ed ecco un fax che la Monsanto spedisce a un funzionario della sanità pubblica, dove si legge: Sembra che Michael Hansen non sia dei nostri. Dei nostri!!, capite che razza di mentalità? La Monsanto considerava gli esperti della FAO roba propria."

La mia fonte sosta per il tempo necessario a sorseggiare il bicchiere di vino bianco che gli ho offerto, poi estrae dalla borsa altri fogli, altre prove inedite. E rincara la dose: "Ma alla FAO ci sono altri scienziati gravemente compromessi: sono Margaret Miller e Leonard Ritter. In questo documento riservato del Congresso degli Stati Uniti si legge che la dottoressa Miller era sotto inchiesta perché, da dipendente pubblico, fu sorpresa a lavorare....indovini per chi? Per la Monsanto naturalmente, per conto della quale studiava gli ormoni. Veniamo al dottor Ritter: ho scoperto dagli archivi del parlamento canadese che Ritter è stato più volte pagato del CAHI, una grossa lobby nordamericana di industrie veterinare favorevoli agli ormoni. Insomma, Miller e Ritter, due gioielli di indipendenza interni alla FAO, non le sembra?"

E allora ricapitoliamo: la mia fonte inglese ha dimostrato che alcuni scienziati consulenti della FAO, e specialmente Nick Weber, Margaret Miller e Leonard Ritter, erano da tempo collusi con una lobby e con una grande multinazionale interessate a vendere ormoni, e nonostante l'evidente conflitto di interessi hanno continuato a decidere della nostra salute per conto della FAO.

Lo scienziato inglese ora conclude e porta l'affondo decisivo: "E non è proprio la FAO che ha giudicato innoqui anche gli ormoni della carne, permettendo così al WTO di condannare l'Europa. Come ci si può fidare? E poi guardi le liste degli scienziati della FAO che nel '99 e nel 2000 hanno di nuovo esaminato gli ormoni americani nella carne: chi ci troviamo? Weber, Miller, Ritter e tutti gli altri. Sono tutti qui, sono sempre qui!"

Lo fisso con un'unica domanda nella testa: la FAO sapeva, ha mai sospettato qualcosa? "Certo che sapeva," risponde con un accenno di sorriso, "infatti Micheal Hansen, il bastian contrario, scrisse tutto nero su bianco e lo spedì persino al direttore generale della FAO. Tutto si sapeva... persino nei dettagli. Ma questo non ha impedito a noi europei di essere così penalizzati dal verdetto sulla carne agli ormoni." Torno a Roma e ricontatto il dirigente della FAO che avevo incontrato pochi giorni addietro. Gli passo le prove contro i dottori Weber, Miller e Ritter, ma lui non sembra molto interessato ai documenti. Li degna appena di un'occhiata e ribatte: "I nostri scienziati sono scelti dalla FAO e dall'Organizzazione Mondiale delle Sanità, e sono confermati nell'incarico dai governi membri. Sono esperti al di sopra di ogni sospetto e le sue affermazioni ci giungono assolutamente nuove."

Una storia pesantissima questa, nella quale erano in gioco non solo interessi multimiliardari, ma soprattutto la nostra salute. E a questo punto tutto mi potevo aspettare meno che fosse proprio il WTO a rilanciare alla grande, a far esplodere la bomba. E' ancora Rockwell che parla: "Se i vostri governi avessero invocato l'articolo 5.7 del nostro accordo Sanitario e Fitosanitario la battaglia sulla carne agli ormoni non sarebbe mai esistita: niente FAO, niente sanzioni americane, nulla di nulla. L'articolo 5.7 del WTO vi dava il diritto di evitare lo scontro, mentre l'Europa studiava la sicurezza della carne americana." "E perché l'Europa non l'ha usato?" gli chiedo più che sorpreso. Rockwell mi fissa pregustando il colpo ad effetto, e con un che di trionfale aggiunge: "Lo chieda a loro. Non lo hanno mai invocato quell'articolo!"

Non mi rimane che girare la scottante questione ai massimi responsabili politici, e cioé al ministro Fassino e al Presidente della Commissione Europea Romano Prodi. Perché non è stato invocato quell'articolo?

Fassino risponde che non lo sa, che ci sarà una ragione legale, e conclude sbrigativo: "Chieda a qualcun altro" dice scuotendo il capo. Romano Prodi invece tenta una battuta ("Non lo so, non sono mica un veterinario!") e poi conclude sostenendo che si tratta di aspetti tecnici "...e non potete venire a chiedere a me."

Entrambi si sono difesi aggiungendo che l'importante è che la carne agli ormoni non entri in Europa, ma questo francamente non mi basta. Abbiamo miliardi di sanzioni che ci penalizzano ogni giorno, e si tratta della più pericolosa disputa commerciale degli ultimi 20 anni. Se la si poteva evitare appellandosi a un semplice articolo, i nostri massimi dirigenti politici lo avrebbero dovuto sapere. Ma tant' è.

Io non chiedo più nulla, e scelgo invece di mostrarvi qualcosa di concreto. Parliamo sempre della globalizzazione, del WTO e dei suoi potentissimi accordi. La parola a Susan George: "L' arma più tagliente del WTO è l'accordo sulle Barriere Tecniche al Commercio, che può annullare le leggi degli Stati, quelle delle amministrazioni locali e persino le regole delle piccole organizzazioni non governative. Esso colpisce particolarmente il diritto dei cittadini di sapere come sono fatte le merci che acquistano e da chi sono fatte."

E infatti questo accordo prende di mira proprio le etichette: le etichette che ci dovrebbero dire se nei giocattoli che diamo ai nostri piccoli ci sono sostanze tossiche, se nei cibi che mangiamo ci sono ingredienti geneticamente modificati, o se i palloni che compriamo sono fatti da bambini sfruttati nei paesi poveri. Iniziamo proprio da questo esempio. Susan George spiega: "Il calcio è sicuramente un grande sport, anche se io sono americana! Ma l'accordo WTO sulle Barriere Tecniche al Commercio ci impedisce proprio di rifiutarci di importare palloni da calcio cuciti dai bambini sfruttati in Asia. Per i globalizzatori un pallone è un prodotto e lo possiamo rifiutare solo se è di cattiva qualità e non se è fatto da piccoli schiavi."

Damiano Tommasi, mediano della Roma, è da tempo impegnato contro l'importazione di palloni prodotti col lavoro minorile. Un accordo del WTO rischia dunque di vanificare il suo impegno. Lo sapeva? "No, non lo sapevo" mi dice Tommasi al termine di un allenamento di fine campionato. "E' una brutta notizia. E' un altro segnale che l'economia e la globalizzazione prevalgono su qulasiasi altro codice."

Proprio al ministro Fassino ho sottoposto questo punto dolente degli accordi del WTO, "lei non sa che l'Italia ha firmato le convenzioni dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro che ci danno il diritto di rifiutare i palloni prodotti col lavoro minorile!"

Rispondo: "Ministro, ciò che lei afferma non sembra vero. Io cito accordi del WTO sovranazionali che già sono esistenti e che sono già ratificati dall'Italia."

Fassino adesso urla: "Ma l'Italia non ha mai ratificato nessun accordo che dice che si possono importare i palloni cuciti dai bambini sfruttati. Credo di sapere la materia di cui sono ministro!...non è possibile!"

Racconto quanto affermato dal ministro Fassino a Susan George, e lei sorpresa ribatte: "Ma certo che è possibile. Fu purtroppo scritto nero su bianco sia negli accordi del GATT che nell'accordo del WTO, ai punti 2.1 e 2.8, e i nostri governi lo dovrebbero sapere."

Interrogo anche Cecilia Brighi, la sindacalista della Cisl esperta di questioni internazionali. Le dico: "Signora Brighi, a battuta risposta: l'Italia ha firmato le convenzioni dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro che danno la possibilità di bloccare le importazioni di palloni fatti da bambini sfruttati nel terzo mondo..." C' è una pausa, la Brighi ribatte: "Chi ha detto questo?" E io: "Fassino." Lei scuote il capo.

Nel frattempo al WTO qualcuno sta già protestando contro le regole europee che vietano nei nostri giocattoli l'uso di ammorbidenti tossici. Me ne parla Fabrizio Fabbri, uno dei responsabili di Green Peace Italia: "Sta succedendo che Hong Kong e il Brasile stanno invocando l'intervento del WTO per annullare il provvedimento europeo che vieta i composti chimici pericolosi nei giocattoli per bambini. Il WTO potrebbe ritenere questa misura di tutela della salute un ostacolo alle leggi del libero commercio, in base a un accordo sottoscritto anche dall'Italia che prevede il non utilizzo di ragioni sociali o ambientali come discriminazione commerciale." Fabbri apre una borsa e fa cadere sulla scrivania una miriade di pupazzetti e bamboline colorati, quelli tossici appunto. Ma dovessero tornare questi giocattoli pericolosi, almeno che ci sia un'etichetta che ce li fa distinguere. Fabbri scuote il capo: "Teoricamente sarebbe la misura minima di tutela dei consumatori, ma è quella maggiormente contestata proprio dal WTO."

Guerra dunque persino alle etichette che ci dovrebbero informare su quello che acquistiamo, ma non solo. Ciò che veramente stupisce è scoprire che chi ha scritto gli accordi di globalizzazione ha voluto che il loro potente braccio si estendesse ben oltre i governi nazionali, e che raggiungesse persino le piccole organizzazioni volontarie. Persino loro. Per capire meglio ciò che ho detto seguiamo la signora Luciana Giordano nello shopping. Questa giovane linguista di Bologna fa parte della nutrita schiera di italiani che acquistano regolarmente il caffé equo & solidale, e questo significa che Luciana sa che il suo caffé è prodotto da lavoratori del terzo mondo tutelati nella dignità e nei diritti fondamentali. Ma come fa a saperlo? Attraverso la presenza sulla confezione dell'etichetta Transfair, oppure comprando il macinato nelle cosiddette Botteghe del mondo. Si tratta di piccole organizzazioni non a fine di lucro, ma sembra prioprio che sia loro che le loro etichette violino i contenuti del solito accordo WTO sulle Barriere tecniche al commercio.

Proprio a Bologna incontro Giorgio Dal Fiume, uno dei massimi dirigenti nazionali della rete equo & solidale e gli chiedo di spiegarmi perché i globalizzatori dei commerci temono così tanto persino le loro etichette: "Perché quello che noi scriviamo in etichetta rende possibile la libera scelta da parte del consumatore" dice Dal Fiume mentre mi fa da guida all'interno di una delle Botteghe del Mondo. "E' paradossale, ma in questo sistema globalizzato siamo noi a difendere il vero funzionamento del mercato, dove a diversa offerta corrisponde una diversa scelta. Ma proprio questo è il punto debole del WTO: può condizionare interi stati ma non può obbligare i cittadini a consumare quello che loro vogliono."

Forse Dal Fiume ha ragione, ma il WTO può costringere il governo italiano a fare tutto quanto è in suo potere per fermare iniziative come quella per cui si è impegnato. E' scritto infatti nero su bianco nell'accordo sulle Barriere Tecniche al Commercio. Lui lo sapeva? "Sì, ci siamo studiati i testi, ed è per questo che siamo andati a Seattle a contestare con ogni mezzo il WTO" conclude.

Etichettare le merci, così che il cittadino possa rifiutare quelle che violano i principi etici, o di protezione dell'ambiente e della propria salute è un diritto fondamentale che il WTO sembra volerci togliere. In tutto ciò sono chiare le pressioni esercitate dai colossi industriali, e non sono illazioni: ho trovato due documenti che non lasciano dubbi. Il primo, stilato dalla Camera di Commercio Internazionale (un'altra lobby di multinazionali che comprende anche la Pirelli e la nostra Confindustria) chiedeva al cancelliere tedesco Schroeder (poco prima della storica conferenza del WTO a Seattle) quanto segue: I programmi di etichettatura ecologica dei prodotti possono creare barriere al libero commercio, e vogliamo su questo una urgente applicazione degli accordi del WTO. Nel secondo documento ho trovato un'esplicita richiesta del Trans Atlantic Business Dialogue, che recita: Alla Commissione Europea chiediamo che un accordo internazionale sugli investimenti non sia indebolito da clausole sui diritti dei lavoratori o sulla tutela dell'ambiente.

Si comprende così come anche la legge europea sull'etichettatura obbligatoria dei cibi contenenti geni modificati sia finita nel mirino del WTO, e infatti il governo di Washington ha già iniziato a Ginevra una procedura legale per costringere Brussell a tornare sui suoi passi. Eppure quella legge non è poi così severa: essa infatti dice che se i geni modificati sono presenti nei cibi sotto la quantità dell'1%, non vanno dichiarati in etichetta. E io ho voluto fare una prova. Ho infatti comprato alcuni prodotti contenenti soia: dicono che la soia oggi sia quasi tutta geneticamente modificata, ma nelle etichette dei biscotti VitaSystem, dei crackers Misura, di quelli della Cereal e del pane a fette della Barilla non è segnalato alcunché. E allora sono andato a farli anlizzare. Ecco i risultati delle analisi. Pane alla soia della Barilla: nessuna presenza di soia transgenica; crackers della Misura, anche qui nulla di geneticamente modificato; veniamo alla Cereal: idem come prima, e cioé niente geni manipolati; e infine abbiamo i biscotti della VitaSystem, e qui la soia transgenica c'era, ma nella percentuale dello 0,6%, e la legge europea, come dicevo, non prevede che questa quantità si debba segnalare in etichetta. Ciò significa che noi consumatori stiamo comunque ingerendo e sperimentando cibo transgenico, anche se in piccole quantità, e questo prima che la scienza sappia con certezza quali saranno gli effetti sulla nostra salute.