GUERRA & PETROLIO

L’attacco alle Torri Gemelle di New York puo' essere visto anche come l’emergere di una guerra sotterranea, l’ennesimo conflitto - come fu la guerra del Golfo nel 1991 - per il petrolio e per la ridistribuzione del potere mondiale. Lo dimostra il fatto che le compagnie petrolifere americane, subito dopo il crollo dell’URSS, si sono insediate nei territori delle Repubbliche centro-asiatiche investendo cifre immense nelle perforazioni di pozzi e nella costruzione di infrastrutture

DI LUIGI MONTEFORTE


Sin da subito siamo tutti stati consapevoli che quella data, l’undici settembre 2001, avrebbe costituito uno spartiacque storico . A distanza di qualche tempo ormai da tale data possiamo iniziare a porci delle domande: e se l’attentato alle Torri Gemelle di nuova York non fosse un atto motivato dalla Guerra santa islamica contro l’Occidente Cristiano ma fosse invece nient’altro che l’emergere di una guerra finora rimasta sotterranea, l’ennesima guerra per il petrolio e la ridistribuzione del potere mondiale dopo il crollo dell’Unione Sovietica ? Quello che all’indomani immediato dell’attentato aveva stupito tutti i commentatori di politica internazionale era che la potente CIA, il famoso FBI, gli apparati avanzatissimi di controllo delle comunicazioni tipo Echelon non avevano avuto sentore e non avevano permesso di prevenire un attentato complesso che ha richiesto una lunga preparazione ed un vasto grado di coordinamento. Eppure, secondo quanto rivelato alla stampa da un portavoce del governo russo, la CIA era stata preavvertita in tempo che era in preparazione un attentato aereo a Nuova York ma non vi aveva dato peso. I servizi di vigilanza aeroportuale avevano bloccato dei dirottatori ma le persone erano poi state subito rilasciate. Addirittura un membro della cellula che ha poi compiuto gli attentati era stato arrestato gia' da una decina di giorni senza che le indagini fossero state estese a possibili altri complici. Inoltre, pur di fronte a tanta apparente sprovvedutezza ed evidente spreco di ingenti risorse del contribuente americano, la CIA e l’FBI non solo non sono state sottoposte ad inchiesta ma hanno ricevuto un aumento dei fondi a disposizione.

L’Afganistan: il piu' ovvio transito per uno sbocco al mare

Da molti e' subito stato avanzato un parallelo storico con l’attacco aereo giapponese a Pearl Harbour, che e' un riferimento illuminante ma anche inquietante. A cinquant’anni di distanza dagli avvenimenti infatti gli storici infatti hanno ormai accertato che i servizi segreti americani, su istruzione del presidente Roosvelt, volutamente nascosero ai comandi della marina la decifrazione delle intercettazione che fornivano i dati e le coordinate dell’imminente attacco aeronavale giapponese. La ragione era che il presidente Roosvelt voleva condurre gli Stati Uniti in guerra contro i tedeschi e l’Asse mentre la maggioranza del Congresso e degli americani erano isolazionisti e contrari all’intervento in guerra. Costretti i giapponesi ad attaccare mediante una serie di provocazioni diplomatiche ed economiche, bisognava poi potersi dotare di un robusto strumento di propaganda, l’attacco di sorpresa giapponese a tradimento delle regole internazionali. Dopo il “proditorio attacco” giapponese contro la flotta deliberatamente ancorata a Pearl Harbour come esca, l’opinione pubblica americana ed il Congresso, entrambi ignari e tradizionalmente molto patriottici, non ebbero esitazione a dichiarare guerra al Giappone che, in base ai trattati sottoscritti dall’Asse, comportava l’automatica entrata in guerra della Germania e dell’Italia, cioe' quanto Roosvelt si era prefisso. Nel caso dell’attacco alle Torri Gemelle di Nuova York ovviamente non possediamo per il momento di prove documentali di un analogo complotto americano ad alto livello ed e' anzi difficile valutarne al buio la probabilita'. A fronte pero' di tali precedenti storici e delle apparenti incongruenze di cui sopra, e' lecito porsi dei dubbi ed esaminare alcune supposizioni, facendo comunque riferimento solo ad elementi certi. Il primo di questi elementi e' che l’Afganistan e' il piu' ovvio transito per lo sbocco al mare per le enormi riserve di idrocarburi delle repubbliche centroasiatiche ex sovietiche: Kazakistan, Uzbekistan e Turkmenistan. Le riserve accertate ed il potenziale estrattivo della regione sono tali infatti da rivaleggiare con quelle della dell’area del golfo Persico e pertanto tali da spostare gli equilibri energetici mondiali, come era noto da tempo. Questa infatti era la ragione che aveva spinto la nomenclatura brezneviana ad entrare, pur consapevole dei rischi, nel groviglio etnico e montuoso afgano che gia' aveva visto impantanarsi due potenti imperi, quello inglese e quello russo. Che fossero rischi piu' che concreti la dirigenza sovietica dovette poi impararlo a proprie spese perche' la sostanziale sconfitta dell’Armata Rossa in un sanguinoso conflitto con la guerriglia afgana fu una delle principali cause scatenanti dell’imprevista implosione del potente impero sovietico. Se la posta in gioco non fosse stata altissima e cioe' il controllo diretto di risorse in grado di spostare l’asse geo-strategico dell’economia mondiale, non si spiegherebbe dunque quale scopo avrebbe avuto la dirigenza sovietica a correre i rischi di un intervento militare per sostituire il regime di Amin, un comunista afgano di provata fedelta'. Per avviare gli enormi investimenti necessari, ai sovietici non bastava infatti un alleato fedele ma occorreva un regime fantoccio, quello di Najibullah. Solo cosi' avrebbero potuto insediare ufficialmente le proprie truppe in Afganistan con l’esplicita richiesta d’intervento di un governo internazionalmente riconosciuto. Allo stesso modo gli americani non avrebbero avuto alcuna ragione per sfidare sulle loro soglie di casa i sovietici rifornendo di armi per l’epoca avanzatissime, come i missili Stinger, la guerriglia islamica, di cui gia' allora se ne conosceva il fondamentalismo e la forte connotazione anti-occidentale, se non fossero gli americani stessi stati consapevoli dell’importanza delle risorse petrolifere centro asiatiche. Si consideri d’altro canto che sempre alla stessa epoca gli americani non erano minimamente intervenuti per impedire i terribili genocidi di persone prevalentemente cristiane, quasi 2'000'000 nel Sudan meridionale e circa 800'000 a Timor Est. Non si dimentichi poi che dalle fila della guerriglia islamica organizzata in Afganistan dagli angloamericani contro i sovietici uscirono non solo Bin Laden ed elementi di Al Quaida ma provennero anche quei nuclei di militanti che determinarono lo scatenamento di cruente guerre civili in Algeria, Bosnia, Kosovo e Cecenia oltre a rialimentare altri focolai preesistenti come ad esempio in Libano e nelle Filippine. Gli americani pagarono dunque un prezzo che sapevano potenzialmente molto caro politicamente perche' consci della posta economica in gioco.

Un decennio di antagonismi sotterranei o palesi.

Un secondo elemento di fatto e' che, crollata l’Unione Sovietica, le grandi compagnie petrolifere ed in primo luogo quelle americane si sono immediatamente insediate nelle repubbliche centro asiatiche investendo cifre veramente considerevoli nella perforazione di pozzi e nelle infrastrutture ma non potendo adeguatamente monetizzare i propri investimenti poiche' tutti i transiti esistenti erano e sono insufficienti. Per di piu' i punti d’imbarco sono controllati territorialmente dai russi ed in misura minore dall’Ucraina e dai paesi baltici. Per inciso notiamo che il principale oleodotto dal Mar Caspio, zona dove i giacimenti scoperti sono (nel gergo dei petrolieri) di dimensioni elefantiache , passava da una regione russa a statuto speciale, la ormai tristemente famosa Cecenia. Sarebbe difficile sintetizzare in poche righe un decennio di antagonismi sotterranei e palesi, che comunque sono sufficientemente noti quanto meno agli specialisti. Saltando i complicati intrecci tra poteri politici, compagnie petrolifere russe, malavita organizzata e banche appoggiate a potenti lobby finanziarie statunitensi, basta ai nostri fini osservare gli esiti dello scontro: i russi sono riusciti a mantenere in proprie mani il controllo dei transiti principali, al punto che oggi la Russia e' la chiave di volta dell’economia mondiale, contesa tra l’Opec da un lato ed i paesi industrializzati dall’altro. Se la Russia chiude i rubinetti del petrolio, il prezzo del greggio sale e viceversa scende se lascia liberi i propri produttori di esportare a volonta'. Per il vero i russi hanno pagato questo ruolo di volano strategico al caro prezzo di un decennio che ha visto il congelamento del debito pubblico interno e della moratoria sul debito sovrano (la terza in un solo secolo!) oltre che la liquidazione della classe dirigente politica che con Eltsin aveva scalzato dopo settant’anni il regime comunista. Questo nemmeno tanto sotterraneo scontro politico ed economico moscovita per il petrolio ha visto pero' anche altri paradossi come ad esempio il fatto che in epoca recente i russi sono giunti a finanziare alcuni gruppi tra i più estremistici della guerriglia islamica afgana, che essi stessi avevano combattuto in epoca sovietica, al fine di bloccare un progettato oleodotto attraverso appunto l’Afganistan. In definitiva possiamo sintetizzare che le grandi compagnie petrolifere americane ed occidentali controllano oggi direttamente buona parte delle risorse della regione ma non i transiti che rimangano in mano alle compagnie russe accusate di essere espressione della mafia locale.

Come disturbare gli sbocchinverso il Mar Nero.

Un terzo dato di fatto riguarda la Cecenia ed in generale la regione caucasica russa dove e' veramente singolare constatare la comparsa, del tutto priva di connessioni con preesistenti tradizioni etniche o storiche, di guerriglieri islamici sunniti della setta wahabita. Tale setta, da cui fu tratta la dinastia saudita, infatti non era mai stata tradizionalmente presente al di fuori della penisola arabica. La presenza ai giorni nostri in Cecenia di tale setta deve pertanto essere messa necessariamente in relazione ai finanziamenti sauditi anche perche' la guerriglia cecena risulta formata esclusivamente da mercenari ed e' difficile sottrarsi al sospetto che i finanziamenti siano stati attribuiti non tanto a fini ideologici e religiosi quanto in relazione al desiderio saudita di bloccare o, per lo meno, di disturbare gli sbocchi al Mar Nero degli idrocarburi centro asiatici tramite l’oleodotto di cui si e' detto. Da sempre peraltro e' noto il fastidio saudita per i produttori indipendenti russi non legati ad essi nel patto di cartello dell’Aramco come le famose sette sorelle (Exon Chevron ecc.) : fino al gennaio 2002 con la loro mancata “concertazione” i russi hanno finito quasi sempre per sabotare strategie di prezzi petroliferi faticosamente approvate in sede Opec ed i cui maggiori sacrifici spesso ricadevano proprio sui sauditi. Quello che piu' ha sempre irritato (ed irrita) i sauditi e' poi che, quando l’Opec riduceva la produzione per sostenere le quotazioni, gli incontrollabili produttori russi ottenevano un doppio vantaggio, aumentando i volumi di vendita e spuntando contemporaneamente migliori prezzi. Il dato dunque che se ne trae e' che, dietro la patina dell’integralismo religioso ceceno, si intravedono le fila di una strategia politica saudita segreta lucida, di lungo termine, cospicuamente dotata e che si estende ben al di la' dei propri confini anzi e' di livello mondiale. Scopo evidente di tale politica saudita e' quello di evitare che gli idrocarburi centro asiatici entrino in concorrenza con le proprie risorse.

Contro ogni velleitarismo della new economy , il petrolio resta ancora dominante in ogni economia.

Un quarto dato di fatto riguarda la rilevanza economica della posta in gioco. Affermare che le risorse del Mar Caspio e delle repubbliche contro asiatiche sono maggiori di quelle del Golfo Persico potrebbe non essere sufficiente a visualizzare le effettive dimensioni. Tanto per dare un esempio concreto l’Uzbekistan attualmente esporta 25 miliardi di metri cubi solo di metano e ne potrebbe produrre ed esportare quasi dieci volte tale quantita'. Essendo privo di altri sbocchi, l’Uzbekistan fino ad un paio di anni fa, “svendeva” alla Russia il proprio gas, che aveva ed ha un prezzo di produzione di circa 3 US $ per migliaio di m3, al prezzo di 20 $/per 1000m3 . Da un paio di anni il prezzo e' stato portato a 38 $/per 1000m3 , di cui circa la meta' in baratto contro “chincaglieria” (merci varie) prodotta in Russia. La societa' di stato russa Gazprom rivende poi tale metano alle grandi compagnie europee come la Snam a prezzi che oscillano tra i 78 ed i 90 $/per 1000m3 . La suddetta Snam rivende poi lo stesso metano a circa 130/140 $/per 1000m3 ai grandi distributori come Edison ed AEM. La famiglia italiana infine paga mediamente il metano circa 450/500 $/per 1000m3, incluse tasse ed accise, senza che siano intervenute particolari o significative trasformazioni industriali rispetto al metano fornito originariamente dall’Uzbekistan a parte il trasporto: il differenziale totale e' di circa 11/12 miliardi di dollari all’anno e se la capacita' produttiva uzbeka di metano fosse pienamente valorizzata sarebbe di 110/120 miliardi di dollari annui ai prezzi attuali. Si potrebbe ripetere l’esempio con il petrolio e con ciascuno dei paesi centro asiatici con simili strabilianti riscontri. Il risultato difficilmente sarebbe inferiore ai mille miliardi di dollari annui senza contare l’indotto: a dispetto dei tanti luoghi comuni sulla “nuova economia” propinatici a tutti i livelli fino al crollo delle borse, gli idrocarburi, petrolio e gas, sono ancora determinanti nella economia contemporanea. Si pensi non solo a quanta parte dei bilanci pubblici, non solo occidentali, e' composta da imposte sugli idrocarburi ma anche a quanti intrecci la filiera del petrolio ha con altre industrie a partire dalla chimica di base e dai fertilizzanti. A cascata ci sono poi le plastiche la chimica fine ed i farmaceutici ma anche tutte le produzioni agricole che dipendono dai fertilizzanti azotati di sintesi e dai fitofarmaci. Si pensi ancora che l’industria farmaceutica di fatto controlla la ricerca scientifica e quest’ultima a sua volta controlla l’universita' e la medicina. Si pensi ancora all’industria automobilistica ed allo storico intreccio ad esempio tra libici e Fiat e potremmo trovare tante altre connessioni in svariate altre industrie. Al di la' dunque del caso contingente del presunto coinvolgimento della Casa Bianca nel fallimento di un gigante del commercio e del trasporto di energia come la Enron , non dovrebbe essere poi considerato casuale che sia il presidente degli Stati Uniti, George W. Bush che il suo vice Cheeney provengano dai vertici di imprese dell’industria petrolifera. Peraltro Cheeney e' il maggiore azionista ed ha guidato il maggior gruppo mondiale di servizi nel settore petrolifero, la Haliburton che controlla uno dei maggiori costruttori internazionali di oleodotti, la Brown & Roots.

Nella capitalizzazione di Wall Street sono fondamentali le azioni della “sette sorelle”

Un quinto dato di fatto e' l’intreccio d’interessi economici e politici tra americani e sauditi , molto stretto e di lunghissima data. La dinastia saudita deve infatti il trono proprio alle famose “sette sorelle” strette originariamente nell’Aramco (Arabian American oil company) poi nazionalizzata circa trent’anni fa. Le societa' allora consorziate nell’Aramco gia' negli anni venti dello scorso secolo avevano infatti rinvenuto il piu' grande giacimento del mondo, il Ghawar, e nel 1932 fecero pertanto in modo, a colpi di lingotti d’oro, d’insediare come “Protettore dei Luoghi Santi” islamici un clan di loro gradimento strappando cosi' il controllo giuridico delle zone petrolifere alla dinastia hascemita, cui sarebbero toccate e che oggi regna sulla Giordania, perche' quest’ultima era legata agli inglesi. La manovra americana riusci' anche perche' gli inglesi, che comunque gia' controllavano i giacimenti iracheni ed iraniani mediante l’Anglopersian oggi BP, in quel momento erano particolarmente deboli per gli esiti della prima guerra mondiale, per il crollo delle borse e per mancanza di liquidita' auree. Per farsi un’idea della rilevanza del giacimento Ghawar basti dire che da esso proviene ancora la stragrande maggioranza del greggio estratto in Arabia Saudita che come e' noto non e' solo il maggiore esportatore al mondo ma anche quello con le maggiori riserve accertate ed immediatamente produttive. Si pensi inoltre che i costi industriali di produzione del greggio saudita sono di circa 25/30 centesimi di dollaro al barile a fronte di un prezzo all’esportazione pari a circa cento volte tanto e, per contro, di costi medi di estrazione nel Mar del Nord pari a circa 15/18 $ al barile con punte fino a 26/27 $. Si pensi ancora che grande parte della capitalizzazione di Wall Street e' fornita da imprese il cui nucleo deriva direttamente o indirettamente dalla compagine azionaria delle “sette sorelle” dell’Aramco e che una larghissima parte degli investimenti finanziari sauditi sono concentrati a Wall Street e da li gestiti. Si pensi poi che la pretesa dei sauditi di essere la guida politica e spirituale dell’islam e del modo arabo in particolare, poggia sul fatto di essere “Protettori dei Luoghi Santi” islamici, grazie come si e' detto all’appoggio del “Grande Satana” americano. Si noti da ultimo che in ambito islamico il potere di proclamare la Guerra Santa in senso stretto, la Jihad, spetta non ad un Bin Laden qualunque ma solo al Califfo che riunisce cioe' in se' il potere politico spirituale. La dinastia saudita dunque , essendosi attribuita il potere califfale come “Protettori dei Luoghi Santi” islamici, rivendica a se' la potesta' esclusiva della proclamazione della Jihad.

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Un sesto dato di fatto e' che le grandi industrie petrolifere mondiale, sotto la supervisione del governo americano e con l’appoggio finanziario di quelle banche d’affari a capitale ebraico che proprio nelle Torri Gemelle avevano le centrali operative, sono ormai passate di fatto alla concreta realizzazione di un piano di condotte di idrocarburi dal Centro Asia e dal Mar Caspio verso tutti i possibili sbocchi portuali tramite la Russia, la Cina, il mar Nero e l’Afganistan. Soprattutto rilevante e' che i sauditi sembrano attribuire tali iniziative ad un segreta congiura americana (ed ebraica) per svincolarsi dal pagamento della tassa petrolifera che erano riusciti ad imporre al mondo degli infedeli nel 1973 quando riuscirono a sestuplicare il prezzo del petrolio. Ad esempio il 21 ottobre 2001 il quotidiano in lingua araba Al Ayyam, pubblicato nel Bahrein descrive l’intervento americano in Afganistan non come la risposta al terrorismo di Bin Laden ma come l’attuazione di un piano preparato dall’allora Segretario di Stato Henry Kissinger (di discendenza ebraica ed esponente della Trilaterale). L’obbiettivo del piano sarebbe quello di assicurare agli USA e ad Israele la supremazia nel mondo mediante il controllo delle fonti petrolifere dell’Asia Centrale per ridurre la dipendenza dal petrolio del Golfo Persico (che gli arabi chiamano Arabico). Tale piano sarebbe stato segretamente preparato dal ministero degli esteri americano dopo gli eventi dell’ottobre 1973 quando i paesi arabi bloccarono le esportazioni di petrolio per fermare la controffensiva israeliana dopo l’attacco egiziano dello Yom Kippur che aveva loro permesso la riconquista del Sinai. Sempre il succitato Al Ayyam descrive come le compagnie petrolifere americane si siano precipitate, a partire dal crollo dell’Unione Sovietica, a firmare accordi di produzione nelle nuove repubbliche dell’Asia Centrale per tenere fuori dall’area i cinesi ed i giapponesi dopo che ne erano stati cacciati i russi. Con la scusa della lotta al terrorismo gli americani si sarebbero dunque insediati militarmente anche in Afganistan e nel Centro Asia dopo che con la Guerra del Golfo del 1992 si erano insediati con basi militare in Arabia Saudita il cui suolo per ogni buon mussulmano wahabita è tutto “Sacro”. Anche se questo progetto potrebbe sembrare verosimile, ovviamente non ce ne sono delle prove, o , quanto meno, il citato quotidiano non ne porta. Tale presunta strategia potrebbe pertanto essere la ricostruzione a posteriori di eventi verificatisi indipendentemente per cause diverse. Il dato di fatto e' pero' che nei paesi del Golfo tale asserito progetto americano viene considerato come evidente e risaputo. In altri termini e visto con occhi coranici, nel 1973 il Califfo saudita (benche' dinasticamente illegittimo) sarebbe riuscito ad imporre agli infedeli il pagamento della imposta da loro dovuta. Gli infedeli pero' da tempo e cioe' dal crollo dell’Impero Sovietico, avrebbero preso delle iniziative per sottrarsi al pagamento del tributo, cioe' la rendita petrolifera che, come abbiamo precedentemente visto, puo' essere considerata una tassa a tutti gli effetti vista la sproporzione tra costo industriale e prezzo imposto. Coranicamente dunque la conseguenza delle iniziative anzi dei maneggi americani e' la necessità della Guerra Santa che e' dovere di tutti i mussulmani. Islam infatti significa sottomissione e cioe' sottomissione del mussulmano ad Allah e sottomissione all’Islam, fino all’annientamento fisico, degli infedeli empi, essendo tali gli atei, gli agnostici ed i cosiddetti laici, cioè tutti coloro che non danno pubblico culto al Dio unico, Allah. I “dimmi”, cioe' gli appartenenti alle fedi “protette” , cristianesimo e giudaismo, possono sottrarsi a tale sorte solo ed unicamente a condizione che non facciano proselitismo e che si assoggettino ad un tributo, la tassa petrolifera di cui si diceva, come segno di sottomissione all’Islam. Deve comunque essere chiaro che il Califfo (saudita) non e' tenuto affatto a proclamare la Jihad anche in condizioni modi o tempi sfavorevoli ai credenti islamici, quando ad esempio questi disponessero di forze militari ed economiche insufficienti. Tutti i mussulmani comprenderebbero in tal caso che il Califfo sta solo aspettando le circostanze favorevoli e che segretamente sta cercando di preparare tali condizioni opportune. Il Califfo inoltre, in funzione di opportunità meramente tattiche, potrebbe proclamare la Guerra Santa solo in segreto o tacitamente, non essendo coranicamente tenuto ad alcun rispetto formale per gli infedeli.

Un settimo dato di fatto e' che, da quanto e' risultato dalla stampa, i servizi segreti americani erano a conoscenza gia' dal 1995 dei progetti di Osama Bin Laden di effettuare attacchi ai simboli del potere militare economico e politico americano che poi abbiamo visto attuare l’ormai storico 11 settembre 2001. Potrebbe essere una mera precessione temporale ma e' impressionante considerare che l’inizio dell’attuazione del supposto piano americano di ridurre la dipendenza occidentale dal petrolio del Golfo Persico sarebbe implicitamente databile al 1993/1994 quando nelle nuove repubbliche centro asiatiche furono assegnate le prime concessioni di ricerca e sfruttamento di idrocarburi: quasi contemporaneamente Osama Bin Laden diede l’avvio al suo complesso progetto di attentati. Impressionante inoltre e' considerare che solo pochi anni fa il Sudan si offri' di consegnare Bin Laden ai servizi segreti americani in cambio di una somma relativamente modesta ed al fine di evitare ritorsioni militari dopo gli attentati in Kenya e nello Yemen e che la CIA rifiuto'. Impressionante e' ancora considerare che un aereo da ricognizione sempre della CIA, aveva avvistato Bin Laden circa un anno prima degli attentati quando era gia' considerato uno dei piu' pericolosi terroristi in circolazione ma non era in alcun modo intervenuto. Infine il ricercatissimo Bin Laden un paio di mesi prima degli attentati si era fatto tranquillamente curare in un ospedale americano. Ribadire a fronte di tutto cio' e di quanto ricordato nelle primissime righe che, se si trattasse di semplice incompetenza, la dabbenaggine dei servizi segreti americani sarebbe davvero sconcertante e' la considerazione davvero piu' benevola che si possa fare.


Un ultimo dato di fatto e' che la mobilitazione militare ha indotto dal settembre 2001 una drastica riduzione delle quotazione del petrolio di modo che a fine anno queste sono risultate quasi dimezzate rispetto a quelle di inizio anno e questo permettera' all’economia americana di uscire presto dalla recessione. Inoltre grazie alla necessita' della lotta al terrorismo e' stato ritenuto giustificato un aumento senza precedenti recenti della spesa pubblica militare americana mentre contemporaneamente la banca centrale statunitense procedeva ad una altrettanto inaudita riduzione del tasso di sconto, il costo interbancario del denaro, di quasi cinque punti percentuali in pochi mesi. Poco si e' riflettuto che e' stata cosi' attuata una manovra antirecessiva piu' ampia, pur fatte le dovute proporzioni, rispetto a quella del New Deal voluta da Roosvelt per far uscire gli Stati Uniti dalla Grande Depressione del 1929/1933. Per curiosa coincidenza il 4 settembre 2001, una settimana prima degli attentati, Ben Cohen, co-fondatore di “Ben & Jerry” un bollettino privato di informazioni strategiche, ha pubblicato un articolo dal titolo: “Cercasi nemico per giustificare una spesa di bilancio di guerra da 344 miliardi di dollari” . Quando una recessione economica si presenta in forma cosi' grave da diventare depressione la guerra e la relativa spesa militare costituiscono a volte lo sbocco piu' semplice. E' noto infatti che la Germania ed in generale l’Europa uscirono dalla crisi solo “grazie” alla politica di riarmo che precedette la guerra, cosi' come oggi si sa che il New Deal in America in definitiva falli' e che solo con la guerra negli Stati Uniti ci fu una ripresa dello sviluppo economico. Tornando ai giorni nostri e' bene chiarire che la recessione non e' stata determinata dagli attentati come la televisione e la stampa ci hanno fatto credere perche' in realta' gia' dal marzo 2001 l’economia americana era in fase recessiva.

Pertanto senza Bin Laden e la necessita' della lotta al terrorismo la classe dirigente americana ed occidentale avrebbe dovuto fornire altre motivazioni per giustificare una manovra economica così rilevante.

La piu' ovvia avrebbe potuto essere che la contrazione economica mondiale era anzi sarebbe da attribuirsi ai tagli di produzione decisi dall’Opec nel dicembre 1999 che avevano fatto triplicare il prezzo del greggio da 11/12 $ al barile ad un massimo di 36 $ nel corso del 2000. Purtroppo per la classe dirigente americana, scaricare le “colpe” sull’Opec” con questa semplice motivazione non avrebbe potuto reggere una verifica un po' piu' approfondita. Infatti era facilmente dimostrabile (come immediatamente fece l’Opec) che l’aumento delle quotazioni non era che un parziale adeguamento in termini reali ai tassi d'inflazione mondiali di lungo periodo. In realta', la motivazione più profonda della crisi economica andava (e va) ricercata nell’inevitabilità dell’esplosione di una gigantesca bolla finanziaria contro i cui rischi aveva per tanti anni tuonato Alan Greenspan senza mai riuscire ad intervenire adeguatamente nei confronti di corsi azionari ed obbligazionari totalmente fuori controllo sull’onda dell’euforia della cosiddetta “New economy” e di quotazioni del dollaro irrealistiche alla luce di piu' di trent’anni di costante deficit commerciale statunitense. Senza la gigantesca manovra economica di stampo keynesiano messa in atto (diminuzione dei tassi d’interesse ed aumento della spesa pubblica, in termini di spesa militare) il rischio di una deflazione come quella del 1929/1933 sarebbe stato più che concreto poiche' l’enorme massa di liquidità autonomamente prodotta dalle banche centrali, dal sistema creditizio, dai circuiti di borsa, dai sistemi pensionistici pubblici e privati non trova riscontro nell’effettiva disponibilità di beni e servizi concretamente disponibili nel presente e ragionevolmente attesi nel futuro. Da una tale situazione si sarebbe potuta innescare una grave crisi politica in merito ai mancati controlli: il caso del clamoroso fallimento della Enron probabilmente non e' che la punta di iceberg sull’inattendibilità dei bilanci (pur debitamente certificati dalle grandi multinazionali della revisione come la Andersen) e dunque dell’inattendibilita' di tutto il sistema finanziario e di riflesso di quello politico, come le trasparenti accuse ai vertici dell’amministrazione Bush (relativamente al caso stesso) fanno intravedere.

Possiamo pertanto concludere che non solo e' un dato di fatto che l’emergenza militare contro il terrorismo ha comportato una diminuzione del prezzo del petrolio (favorendo cosi' la ripresa economica) ma che e' un dato di fatto derivabile da dati di fatto che tale emergenza ha fornito l’opportunità di evitare che la crisi finanziaria e politica fosse ben piu' profonda. E che comportasse conseguenze e ricadute istituzionali.





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